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Vincere in trasferta con caldaie 2.0

di Marco Alfieri

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5 Dicembre 2009
Gli operai addetti alla produzione delle caldaie nella Stf di Magenta

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Il territorio dei Trifone è un po' come il colesterolo buono. Non livido, arroccato, ma aperto alle reti globali. Due fratelli della seconda generazione sono ancora in azienda con i nipoti della terza nidiata, presenti ai piani alti con ruoli diversi. Un modello che salda controllo familiare e agile struttura manageriale. «L'idea è dare sempre più spazio a competenze esterne», chiosa il nipote Roberto. «C'è la fila fuori tra banche e fondi, il power tira».
La storia di Stf è paradigmatica soprattutto perché fino a ieri le nostre Pmi andavano in Slovacchia e Romania banalmente per delocalizzare. Erano i tempi eroici di Timisoara, Veneto. Ventimila ditte aperte in un lampo nella nuova Mecca post muro. Imprenditori lungimiranti e avventurieri, pionieri dello sviluppo e velleitari reucci della tomaia a caccia di soldi facili. Di quella stagione oggi resta qualche fuoco di paglia, incapace di stare dietro all'ultima metamorfosi di Proteo. Moltissimi piccoli sono rientrati, bruciati dalla scoperta che c'è sempre qualcuno più ad est di te che produce a minor costo.
I Trifone sono invece il prototipo di una nuova (de)localizzazione che non scappa dalle tasse o dai costi occidentali. Avamposto di piccoli e medi che cominciano ad avviare in Centro Europa attività a più alto valore aggiunto, avvicinandosi ai mercati di consumo per collocare più facilmente i prodotti. Secondo McKinsey, da queste parti ci sarà un centinaio di milioni di nuovo ceto medio con capacità di spesa entro il 2015. Un territorio esteso che Germania e Francia hanno messo nel mirino. Meno l'Italia, che continua a esportare il 72% delle sue merci nella Ue. La friulana Brovedani (elementi meccanici) di San Vito al Tagliamento è un altro caso di emancipazione riuscita, non nella caldareria ma nell'automotive. Nel 2005 l'azienda arriva con 15 persone a Galanta, sempre in Slovacchia, per seguire un grande cliente come Bosch. Essere in un raggio di 200 minuti è la richiesta del colosso tedesco, prendere o lasciare. Brovedani (80 milioni di fatturato, erano 20 nel 1995), nata nel dopoguerra come officina in conto Zanussi, oggi ha sette stabilimenti tra Italia, Messico e Slovacchia, ormai headquarter per i mercati della nuova Europa (vale il 30% dei ricavi del gruppo). «Solo chi ha investito in macchine ultra moderne e in personale qualificato sopravviverà», dice Lorenzo Rumiz, ad del ramo slovacco dell'azienda. Attento a offrire occasioni di business alla galassia dei subfornitori: «Stiamo cercando di coinvolgere altri imprenditori italiani a piazzarsi nel nostro impianto - spiega-. Gli diamo quel che serve e controlliamo: non è facile essere certificati Iso».
Chiara la traiettoria. Si fa la valigia dietro ai clienti ma poi si diversifica, ci si radica sui mercati di sbocco, rilevando aziende dello sterminato indotto dell'automotive che in questo quadrante gioca una guerra di mercato forsennata. Qui producono Psa e Bmw, Kia ha il suo centro europeo, Volkswagen costruirà la nuova utilitaria, in Repubblica Ceca c'è Hyundai e in Polonia la Fiat di Marchionne l'americano punta a produrre 600mila auto.
«Nel campo esposto alla concorrenza internazionale - scrive Salvatore Rossi di Bankitalia nel suo Controtempo, l'Italia nella crisi mondiale - la pressione dei paesi emergenti ha dato uno scossone alle nostre imprese. Molte non sopravvivono, quelle che ce la fanno non sono poche e si ristrutturano sfruttando la tecnologia. Il sistema dimagrisce ma si rafforza, internazionalizzandosi». E il crinale non è tanto piccoli versus grandi, bensì tecnologizzati o meno. Chi ha compiuto la transizione a una gestione su base telematica, ricavandone produttività e nuovi prodotti ad alto contenuto e chi no. Nel primo gruppo ci sono «regine» e »cavalli», per stare alla metafora utilizzata da Rossi: imprese ormai tecnologizzate o capaci di compiere una specie di salto innovativo con scarto laterale, che le fa sconfinare in settori vicini in grado di generare nuove quote di mercato pari al 20%; nel secondo ci sono «torri» avvinghiate al feticcio del brand, che rinunciano a competere sul terreno della tecnologia, e imprese che rovesciano la scacchiera e se ne vanno. Sono i «delocalizzatori difensivi».
Così, mentre l'accademia si divide tra gli ultimi "giapponesi" del mercatismo neoclassico e keynesiani di ritorno ringalluzziti dalla discesa agli inferi della crisi, le Stf (e Brovedani) d'Italia indicano paradigmi possibili. A partire dalla dimestichezza con nuovi (vecchi) mercati che dopo l'89 abbiamo mal frequentato sul lato dei bassi costi. Per il resto, sempre e solo Est. Una sigla ghiacciata. Dopo cinquant'anni di sipario di ferro ci eravamo abituati a vivere in un'isola di separatezza rispetto ai fratelli confiscati dell'Est, «l'Europa centrale rapita all'Occidente», come la chiamava Milan Kundera. Indulgendo in coda al secolo a una visione notarile dell'allargamento. Il rispetto di qualche parametro, e stop. Tanto che il sistema Italia oggi si trova attardato nell'acchiappare le potenzialità di un mondo decisivo per alimentare un nuovo ciclo di investimenti e ristrutturare produzione e prodotti, facendo ripartire lo sviluppo.
Anche la piccola Slovacchia di Mochovce e Galanta è un paradigma. «L'ingresso nell'euro sta cambiando il paese», spiega Luca Pagnotta, avvocato dello studio romano Pmm, che accompagna imprese italiane sul mercato locale. «C'è un'amministrazione efficiente, un sistema di tassazione flat al 19% e manodopera specializzata. Soprattutto, la Slovacchia è un hub strategico verso Russia e nuovi mercati europei». Nell'arco di 100 chilometri si raggiungono 80 milioni di consumatori. Eppure «la via più diffusa è ancora la delocalizzazione coatta, nell'automotive e nell'industria del bianco (Whirlpool produce nel paese 1,5 milioni di lavatrici l'anno)», ragiona Alessandro Villa, segretario generale della Camera di commercio italo-slovacca, che associa circa 400 imprese di diritto slovacco riconducibili ad interessi italiani in loco. «Fornitori e subfornitori che stanno a 100-150 chilometri dal cliente finale per non perdere commesse».
  CONTINUA ...»

5 Dicembre 2009
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